William Fitzsimmons

"Lions "

Se in Brasile sono le telenovelas a lanciare artisti e brani sconosciuti, negli Usa sono i serial televisivi, da "Dr House" a "Criminal minds", da "Law & Order" a "Grey's anatomy". Ed è proprio a quest'ultimo che si deve la fama di un folk singer 36enne dell'Illinois come William Fitzsimmons che in quel popolarissimo serial ha lanciato brani come "Please don't go" e "Passion play".

La musica è stata da sempre per Fitzsimmons una peculiare espressione di comunicazione dal momento che l'ha sempre utilizzata nella vita di relazione con i suoi genitori, entrambi ciechi. Divenuto man mano polistrumentista egli ha applicato le leggi del pentagramma alla medicina utilizzandole spesso per la sua ricerca professionale di terapeuta delle malattie mentali ma soprattutto traducendo in morbide canzoni le sue esperienze dirette. Con la sua figura ascetica di talebano dalla lunga barba, Fitzsimmons, pur essendo appassionato di elettronica, semina piccole gocce di tecnologia dentro le sue canzoni che sono però, di base, fatte di chitarra (raramente un pianoforte suonato da Abby Gunderson) e voce mai alzata al massimo volume, anzi, molto spesso sussurrata come nella migliore tradizione vocale femminile francese.

Cinque album di studio dal 2005 ad oggi sull'onda di belle canzoni acustiche che oggi trovano la conferma in questo "Lions", uscito da pochi giorni in Usa e già portato in tournée in questi giorni in Europa (la sua agenda esclude l'Italia ma è densa di impegni fino a metà dell'anno). Nelle dodici classiche canzoni di "Lions", Bill Fitzsimmons accentua le sue riflessioni personali e i suoi dubbi sull'essere artista e medico allo stesso tempo, sul ruolo dell'uno e dell'altro, solo apparentemente inconciliabili ("L'importante -afferma- è trovare il giusto equilibrio senza che nessuno dei due mondi prenda il sopravvento sull'altro e quando ti accorgi di aver intrapreso un percorso sbagliato la cosa migliore è quella di fermarsi e di tornare indietro per ricominciare daccapo"). Ed è così che, nella più totale semplicità, sono nate queste canzoni delicate il cui unico rischio, se prese in blocco, è di flirtare con la noia per i toni monocordi che le contraddistinguono. In ogni canzone di "Lions" ci sono riflessi di una moderna scuola lo-fi che rimanda a Bon Iver, a Sufjean Stevens o alle intimizzazioni di Alexi Murdoch.

Sono brani questi, guidati dalla pacata visione del produttore di Seattle Chris Walla (chitarrista dei Death Cab for Cutie) nei quali si vive di calma e malinconia dalla iniziale "Well enough" alla canzone che dà il titolo all'intero disco. Nella bella "Blood/Chest" ci sono echi della dolcezza di Nick Drake mentre in "Centralia" i tentativi di elettronica sono solo di un sintonizzatore che amplifica semplicemente l'anima umbratile dell'artista che sembra confessare il proprio imbarazzo o la propria inadeguatezza in ogni canzone. Ma è l'intimismo il comune denominatore delle canzoni di "Lions", un sentimento che stempera contrasti e tensioni e che non lascia mai l'amaro in bocca.

Voto 7,5/10