«Se sono diventato Domingo lo devo a mia moglie Marta»
Roma | La vera storia del grande tenore spagnolo che è stato festeggiato all'Arena di Verona dove 40 anni fa fece il suo debutto.
di Renzo Allegri

Placido Domingo in veste di direttore d'orchestra durante una prova
Placido Domingo "mattatore" lirico all'Arena di Verona. Il grande tenore spagnolo è stato festeggiato per ricordare il suo debutto in quel teatro avvenuto 40 anni fa, il 16 luglio 1969. Domingo aveva allora 28 anni. Si presentò interpretando il ruolo di Calaf in una "Turandot" indimenticabile che aveva come protagonista femminile Birgit Nilsson.
Due settimane dopo, era protagonista, sempre in Arena, del "Don Carlo" di Verdi. Un debutto, quindi, da mattatore, nel corso di una stagione lirica che radunava artisti eccezionali: Piero Cappuccilli, Gianni Raimondi, Carlo Bergonzi, Bonaldo Giaiotti, Fiorenza Cossotto, Monteserrat Caballè, Gabriella Tucci, Renato Capecchi eccetera. Padrini straordinari per la carriera di un cantante che, con le sue doti artistiche, avrebbe incantato il mondo e che, 40 anni dopo, è ancora sulla breccia da impareggiabile protagonista.
Infatti, anche all'Arena di Verona, Domingo è stato un vero "mattatore". Ha aperto la stagione lirica dal podio, impegnato come direttore d'orchestra, e poi, il 24 luglio, nel corso di una serata di gala, si è esibito sul palcoscenico, interpretando il quarto atto di tre opere a lui particolarmente congeniali: è stato Otello, nell'omonima opera di Verdi, Cyrano, nel "Cyrano de Bergerac" di Franco Alfano, Don Josè nella "Carmen" di George Bizet.
Successo strepitoso, applausi, ovazioni, fiori, commozione. Oggi, Placido Domingo è per tutti il re del melodramma. Un mito. Una leggenda. Non solo per la voce, per la tecnica che gli permette ancora di affrontare gli scogli più insidiosi delle opere, ma anche perché è, come è sempre stato, un vero attore, cioè un interprete che delinea i personaggi con una introspezione psicologica raffinata, un musicista che conosce tutti i segreti delle armonie dell'espressione vocale, e che può permettersi di passare dal palcoscenico al podio per dirigere i capolavori che tante volte ha interpretato. Mai nella storia della lirica c'è stato un artista così completo ad altissimo livello. "Un fenomeno", come viene definito. Ma pochi sanno quanta fatica e quanto lavoro stanno alla base di tanto successo.
Domingo è un uomo cordiale, estroverso, sorridente, ma anche molto riservato per ciò che riguarda la sua vita privata. Raramente parla di se stesso. Nelle biografie ufficiali sono registrati i successi della sua carriera, ma silenzio sulle difficoltà incontrate, sui sacrifici affrontati. Un giorno di tanti anni fa, in un momento particolare della sua vita artistica, il tenore si lasciò andare alle confidenze. Mi fece un racconto dettagliato degli inizi della sua carriera, racconto che, a quanto mi risulta, non fece mai più. Un documento straordinario, ricco di particolari e dettagli inediti, dal quale balza in evidenza la vera grandezza di un artista che ha sudato sangue per raggiungere le mete che si era proposto, e di un uomo che ha saputo lottare con tenacia, passione e costanza ammirevoli e rare.
Era il dicembre 1976. Domingo aveva inaugurato la stagione lirica del Teatro alla Scala di Milano con "Otello", avendo accanto Mirella Freni e con la direzione di Carlos Kleiber. Successo strepitoso. Anche perché mai si era visto un tenore così giovane delineare un "Otello" tanto nuovo e convincente. Alla prima era presente anche Mario Del Monaco, "Otello storico". Lodò il giovane collega, ma disse che imbrogliava sull'età. «Non ha 35 anni come dice di avere», dichiarò ai giornali. «Ne ha almeno dieci di più perché è impossibile cantare "Otello" senza una lunga maturazione vocale».
I giornali riportarono le dichiarazioni di Del Monaco con grande evidenza. Nacquero immediate polemiche sulla vera età del tenore spagnolo. Domingo era amareggiato. E quando andai a trovarlo, mostrandomi il passaporto e indicandomi la data di nascita, 21 gennaio 1941, mi disse: «E' vero, sono giovane ma pochi sanno che canto da diciotto anni e che il prossimo mese festeggerò la mia 1200° recita. Ci sono tenori che non arrivano a questo numero di recite neanche in tutta la vita. Per questo, anche se ho soltanto 35 anni, mi sento un veterano della lirica e preparato anche per opere difficoltose come il capolavoro di Verdi».
Eravamo all'Hotel Principe di Savoia di Milano. Domingo sembrava più un divo del cinema che un tenore. Alto, atletico, con grandi occhi neri e un volto dolce da nobile spagnolo, attirava l'attenzione di tutti. Aveva una popolarità incredibile. La gente lo riconosceva. Davanti all'albergo sostavano gruppetti di fans pronti ad assalirlo per avere un autografo. Anche ragazzine, con i libri di scuola sotto il braccio. «Sembrano tornati i tempi della Callas», mi disse commosso il portiere dell'albergo, che era un melomane.
Dentro l'albergo, Domingo era corteggiato da impresari, discografici, direttori di teatri. Era già allora il tenore più conteso, il cantante più pagato. Ma sembrava estraneo agli affari, al successo. Parlava con una semplicità disarmante. Arrossiva ai complimenti. Per rendere la nostra intervista un po' piccante gli ricordavo le polemiche scatenate dalle dichiarazioni di Mario Del Monaco, ma non riuscii a cavargli una sola battuta cattiva contro nessuno. In seguito ho incontrato Placido Domingo tante altre volte, ma non l'ho mai sentito parlare male di un collega.
Cenammo insieme. E quando l'atmosfera si era riscaldata, grazie anche un buon vino, Domingo cominciò a raccontare. Gli avevo chiesto della sua infanzia, degli inizi della carriera. I ricordi sgorgavano come una sorgente impetuosa. Ricordi caldi, vivi, commossi. E credo di aver registrato, quella sera, una confessione che Domingo forse non ha mai più fatto. Ecco le parti più importanti di quella lunga intervista.
«Cosa prova vedendo che tutti la riconoscono, la salutano, le chiedono l'autografo?», chiesi a Domingo. «Amo il pubblico, mi piace essere riconosciuto, trovare amici», rispose. «E' tanto bello volersi bene, aiutarsi. Io ora sono fortunato. Ma ho passato periodi difficili, tremendi. Se non avessi avuto l'aiuto di persone che mi volevano bene, non li avrei mai superati. Quei momenti "neri" mi hanno insegnato a misurare la realtà e a credere che gli uomini non sono cattivi come a volte sembrano».
«Ha sempre sognato di diventare un grande cantante lirico?».
«No. La musica è sempre stata una grande passione per me fin dall'infanzia, ma ho scoperto di avere una bella voce solo a 17 anni. Sono nato in Spagna e sono figlio di cantanti. Mio padre e mia madre sono stati due popolari artisti della "zurzuela", una forma di operetta molto in voga nei Paesi di lingua spagnola. Quando ero piccolo, la mia famiglia è emigrata in Messico e sono cresciuto là. Ho respirato musica, e soprattutto canto, fin dalla nascita. I miei genitori sognavano che diventassi un pianista. Cominciai a studiare il pianoforte da ragazzino, e riuscivo bene. Fin da allora avevo un carattere estroverso, dinamico. Mi entusiasmavo per tutto e mi piaceva fare tutto. Suonavo anche la chitarra, la fisarmonica, cantavo canzonette, canzoni folk, arie d'opera. Ma la passione predominante negli anni dell'adolescenza e prima giovinezza fu lo sport. Adoravo il calcio, e le corride. Avevo un bellissimo costume da torero e con gli amici andavo spesso ad allenarmi con i tori piccoli. Mio padre e mia madre interpretavano un'operetta imperniata sulla vita dei toreri, ed io ero felice di poter partecipare a quelle recite con il mio lucente costume da torero. Poi un giorno, un torello focoso mi diede una cornata facendomi ruzzolare come una palla da biliardo. Provai una grande paura e smisi di frequentare le arene.
«La passione per il calcio durò otto anni. Giocavo da portiere ed ero bravo. Dicevano che sarei diventato un campione e credo che sarei riuscito se non fosse intervenuta la musica. Avevamo un professore di scuola che era anche un magnifico allenatore. Aveva preparato la squadra della nostra classe in maniera eccellente. Ci aveva insegnato ad essere uniti. Il nostro motto era: "Tutti per uno ed uno per tutti". Per otto anni abbiamo studiato insieme, sempre con lo stesso professore, e fummo sempre promossi tutti con lo stesso voto. Se uno restava indietro in una materia, facevamo a gara per aiutarlo in modo che diventasse bravo come gli altri. Eravamo decisi a ripetere la classe, se uno di noi fosse stato bocciato, ma fortunatamente non è accaduto.
«La squadra di calcio della nostra classe era la migliore della scuola. Alcuni miei compagni sono diventati giocatori professionisti. Ai campionati mondiali di Città del Messico, tre miei compagni di scuola facevano parte della squadra nazionale messicana e uno era quel Gonzales che ha segnato un gol all'Italia.
«Contemporaneamente alle scuole normali, frequentavo il Conservatorio. I due edifici erano vicini, ma io ero quasi sempre al Conservatorio. Verso i quindici anni cominciai a scoprire il fascino del canto. Mi piaceva ascoltare, e trascorrevo ore ed ore passando da una stanza all'altra dove si tenevano lezioni di canto. Mi piaceva tutto: musica da ca-mera, pezzi d'opera, arie d'operette; mi piaceva la voce del soprano, quella del tenore, del basso, del baritono. Poi canticchiavo quello che avevo ascoltato e fu così che qualcuno cominciò ad accorgersi che avevo una bella voce.
«Non ho mai avuto maestri di canto. L'unico che mi ha dato delle lezioni, o meglio dei consigli, fu un certo Carlo Morelli, cileno, di lontana origine italiana. Il suo vero nome era Carlos Morales Zanelli, ma aveva assunto un nome d'arte per distinguersi dal fratello, Renato Zanelli, che fu un grande tenore e uno dei più famosi interpreti di Otello. Carlo Morelli non mi insegnò a cantare, ma a recitare. Diceva che il segreto per diventare un grande artista lirico stava soprattutto nel saper recitare, nel saper declamare in modo da dare il giusto risalto alle parole. Io condivido in pieno quella teoria e per ricordarmi sempre gli insegnamenti di Carlo Morelli, porto all'anulare, insieme alla fede matrimoniale, un anello che egli mi ha dato.
«Carlo Morelli riuscì a infondermi tale entusiasmo per il teatro che ad un certo momento non potevo più contenere la mia passione e dovetti mettermi a cantare. Non mi interessava cosa fare, era sufficiente poter salire su un palcoscenico, su una ribalta, avere un pubblico a cui comuni-care. E così cominciò la mia vita artistica.
«Avevo ancora le idee molto confuse e accettavo le offerte più disparate: cantavo nelle operette con i miei genitori, suonavo il pianoforte in un night. Dagli Stati Uniti venne una compagnia per recitare "My Fair Lady" e mi affidarono una parte. Poi cantai in altre commedie musicali. In Messico erano scomparsi i due grandi interpreti della musica folcloristica messicana, la musica "rancera", e si cercavano dei giovani. Alcuni organizzatori misero gli occhi su di me e volevano farmi diventare un esperto di quel genere. Mi fecero anche un provino per un film. Fu il regista di "My Fair Lady" che mi disse: "Tu devi cantare l'opera lirica, perché hai una voce stupenda". Incoraggiato da quel complimento cominciai a studiare opere liriche. Credevo di avere una voce da baritono, imparai diverse arie famose e mi presentai per una audizione al teatro di Città del Messico. Cantai il "Prologo" dei "Pagliacci" e "Nemico della patria" dall'"Andrea Chenier". I miei esaminatori restarono perplessi. "Mi cacciano via", pensai. Invece dissero: "Hai una bella voce, ma non sei un baritono: sei un tenore". Mi misero davanti uno spartito e mi fecero cantare alcune arie da tenore. Arrivò un la naturale e feci una stecca terribile. "Non spaventarti", mi disse un esaminatore. "Sbagliando si impara". Mi scritturarono subito affidandomi la parte di Matteo Borsa. in "Rigoletto".
«Debuttai così in un ruolo insignificante, ma ero contentissimo. Per due anni, cioè dal 1959 al 1961, continuai a interpretare ruoli secondari, senza mai avere la possibilità di emergere. Nel 1961 cominciai ad avere qualche parte di protagonista. A Dallas interpretai "Lucia di Lammermoor", accanto alla leggendaria Lily Pons, che con quell'opera dava l'addio al teatro. Il 19 novembre 1962, sempre in America, interpretai la parte di Cassio nell'"Otello", accanto a Del Monaco.
«Nel frattempo mi ero anche formato una famiglia : avevo conosciuto Marta Ornelas, soprano lirico messicano, ci eravamo sposati ed avevamo un figlio. Bisognava lavorare per mandare avanti la baracca. Era necessario andare all'estero per farci conoscere, per allargare il giro degli impegni professionali. Un impresario ci offrì un contratto per sei mesi a Tel Aviv. Il cachet era miserabile: 330 dollari al mese in due e bisognava cantare venti recite, dieci a testa ogni mese. Ma era lavoro sicuro, e partimmo. Cominciò il periodo più duro, più brutto ma anche più importante della mia carriera.
«Tel Aviv è una città di intenditori e amanti della mu-sica. Io ero un cantante autodidatta, non avevo alcuna scuola alle spalle. A Tel Aviv i difetti e le deficienze della mia voce cominciarono a venir fuori tutti; e ricevevo molte critiche.
«La prima ad accorgersi che la mia voce non andava fu mia moglie. "Quando canti non ti sento", mi disse una sera. "Ci deve essere qualche cosa di sbagliato nell'impostazione, nella emissione del fiato".
«In quella città non conoscevamo nessuno a cui chiedere consiglio o aiuto. Non potevamo rivolgerci alla direzione del teatro che ci aveva ingaggiati. Decidemmo di fare da soli. Tutti i giorni, quando il teatro era vuoto, andavamo in palcoscenico. Mia moglie si metteva al pianoforte, io cominciavo a fare vocalizzi, a cantare romanze. Scoprimmo che l'origine di tutte le deficienze della mia voce stava nel modo in cui cantavo. Io cantavo sul fiato, consumando un sacco di energie, senza avere buoni risultati. Bisognava cambiare tecnica, imparare ad appoggiare la voce, usare il diaframma. Sotto la guida di mia moglie cominciai ad allenarmi con questo sistema.
«Studiavamo ore ed ore, ogni giorno. Dovevamo fermarci a Tel Aviv sei mesi e ci restammo quasi tre anni. La nostra vita era miserrima. I soldi ci bastavano appena per sfamarci. Non potemmo mai permetterci uno svago, un capriccio. Quando cantava mia moglie, io restavo in casa a far da mangiare, a lavare i piatti, a pulire i pavimenti, a spolverare i mobili. Quando cantavo io, stava in casa mia moglie. I giorni in cui dovevamo cantare insieme, andavamo a cena fuori, non però al ristorante, non potevamo permettercelo, ma in qualche piccola trattoria. Tutto il tempo libero lo trascorrevamo a studiare, a migliorare la mia voce. Sono state quelle centinaia di ore di studio e di esercizio, fatte in teatro con mia moglie, a costruire il mio avvenire. Da una esperienza come quella si esce o distrutti o con una voce a prova di bomba. In due anni e mezzo avevo fatto 260 recite, più centinaia di ore di vocalizzi e allenamenti. La voce aveva resistito, anzi si era formata : quindi ero pronto per il gran de lancio.
«Lasciammo Tel Aviv nel 1965, con due contratti per gli Stati Uniti. Debuttai al "City Opera" di New York. Ebbi un successo strepitoso. Il giorno dopo ricevetti decine di offerte di lavoro e le accettai tutte per paura di restare senza. Poi dovetti lavorare come un negro per mantenere gli impegni. Appena trovai una settimana libera, venni in Europa a fare delle audizioni.
«Il mio obiettivo erano i grandi teatri: Metropolitan negli Stati Uniti e la Scala in Italia. Volevo debuttare in questi templi della lirica prima di compiere trent'anni. In Europa fui ingaggiato per il Teatro di Amburgo, per l'Opera di Vienna e quella di Berlino, che sono ribalte importantissime. Infatti, subito dopo ricevetti offerte per San Francisco, Chicago, e poi, finalmente, nel 1968 fui chiamato al Metropolitan. Nel 1969 debuttai all'Arena di Verona e alla Scala di Milano. Da allora ho cantato in tutto il mondo».
Ricordando il passato, che allora non era poi tanto lontano, Domingo era commosso. Lo si vedeva dai suoi occhi lucidi. Parlammo a lungo. Di progetti, di sogni, di speranze. Ma il discorso tornava sempre all'esperienza di Tel Aviv.
«Quei due anni e mezzo sono stati tremendi, grigi, difficoltosissimi. Ma anche belli. Ho imparato a conoscere e ad amare mia moglie. Io e Marta siamo una coppia molto affiatata. Quando ci siamo conosciuti eravamo ragazzi e credevamo che il nostro amore fosse il più bello del mondo. Ma solo a Tel Aviv, quando eravamo soli e poveri, quando certe sere per le difficoltà ci trovavamo a piangere insieme abbiamo scoperto il vero amore. E' stato quell'amore a renderci forti e a farmi superare tutte le difficoltà. Io ripeto spesso a tutti: "Se sono diventato Placido Domingo, lo devo soprattutto a Marta" ».
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31/07/2009
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