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"Tutto ciò che è veramente nostro non è soggetto alla sorte"

San Benedetto del Tronto | Un monito da un grande saggio dell’antichità, Plutarco.

di Simone Corradetti



“Dalla sorte dipendono le vicende umane non da retto consiglio”.
Così inizia, con una citazione da un tragico minore, Cheremone, un opusculum( il De fortuna) dei circa ottanta che appartengono al catalogo dei Moralia, operette morali ante litteram, attribuiti al greco di Cheronea che fu sacerdote delfico ( ci rimane un’iscrizione dedicatoria), il sophòs Plutarco, vissuto al tempo della “Rinascenza Antonina”, II sec. d.C., ultimo periodo di splendore della civiltà propriamente detta classica.

Il verso di Cheremone, celebre nell’antichità, si pone sulla lunghezza d’onda del nostro brano di maturità, tratto dal De tranquillitate animi,475 D-E, e fa parte di una serie di operette che se vogliamo sono accomunate dal tema della mutevolezza della sorte opposta alla stabilità, all’immutabilità della parte migliore di noi, che mantiene un’essenza inalienabile ( anaphaìreton èchousi tèn ousìan).Oltre al De fortuna appartengono a questo gruppo il De virtute morali e soprattutto una smilza opera di qualche breve paginetta che si occupa della insegnabilità della virtù, tema invalso già dall’epoca di Socrate e dei sofisti: la conclusione è che, come si acquisisce la tèchne dell’oratore del musico del timoniere dell’architetto, così si può necessariamente apprendere la via che porta alla Buona Vita, e ad essere quindi agathoì àndres, a possedere, in ultima istanza la virtù.

Tuttavia, sottolinea Plutarco, gli uomini buoni restano per lo più un nome nudo come i centauri, i ciclopi, i giganti.
Nel verso posto all’inizio il contraltare della fortuna appartiene all’ euboulìa, diremmo, in termini cristiani, la buona volontà : è termine che ben si adatta a descrivere la bèltion mèros presente in ciascuno di noi, che nemmeno gli Achei distruttori di Troia potrebbero trascinare via da noi.

La nostra diàthesis, parola chiave del vocabolario plutarcheo, cioè la nostra disposizione interiore, caratteriale, morale, non può essere invertita, sovvertita, mutata dalla sorte. Qualche dubbio in verità si accampa minaccioso su questa certezza. Se la diàthesis è innata, e non è governata dalla buona volontà? Ecco che interviene l’insegnamento a raddrizzare la piantina nata storta.

Leggendo questi greci, ci sembra di avere di fronte veramente degli eroi sofoclei, nella lotta perpetua tra l’idealità e la realtà; ci sembra che siano imperturbabili nella loro saggezza,e la vita, loro e di un mondo, così diversa dalla nostra , la loro così saggia, buona e giusta, la nostra, al contrario, caotica, priva di senno, senza virilità. Ma non bisogna dimenticare forse un’ovvietà, che il mondo, nella stragrande maggioranza dei suoi abitanti , è sempre stato lo stesso : il tentativo di questi grandi saggi, Socrate o Platone o Plutarco o Seneca o Epitteto ( anche quest’ultimo, stoico, vecchia conoscenza dell’esame di maturità, definiva le cose in nostro possesso e quelle alienabili dalla sorte),o chi altri, era, tanto più in un’epoca di angoscia come il tardo V a.C. o il II d.C., di toccare le corde dell’anima di un mondo in cui la sorte stava diventando sovrana o lo era diventata, almeno dall’ellenismo in poi, e si stava perdendo di vista il grande capitale che costituiva l’uomo, le sue doti, le sue risorse di razionalità, la sua superiorità sugli altri animali, e la sua capacità, quindi, di imporre il proprio marchio sugli eventi in maniera consapevole. Si tratta dell’eterna lotta tra razionalità e irrazionalità, che i greci avvertivano chiaramente in loro stessi, tra la possibilità di dominare la realtà o di subirla, deragliando nell’irrazionalità del caso.

Seneca stesso, qualche anno prima di Plutarco, aveva provato con Nerone a creare quello stato ideale platonico governato da filosofi: ma non ci riuscì ( certo l’allievo era non comune!) e lui stesso rimase impastoiato nella realtà più materiale possibile, accusato di fare la bella vita tra agie ricchezze. Di qui il rifugio nella scrittura filosofica di matrice stoicheggiante che gli fece citare in una sua opera lo stesso aneddoto presente anche nel De tranquillitate plutarcheo, con protagonista il filosofo Stilpone che, dopo aver perso tutti i beni, rispose al suo aguzzino Demetrio Poliorcete, tra IV e III secolo, “ omnia mea mecum sunt”,frase che sintetizza bene l’imperturbabilità del saggio antico.
Vorrei ora concludere con alcune citazioni da testi antichi che Plutarco pone nel De tranquillitate e nel

De fortuna,da cui siamo partiti per queste fugaci puntualizzazioni:
1. “ Mi consumerà il mio demone, proprio lui, ma quando io vorrò”
Euripide nelle Baccanti: affermazione dell’autodeterminazione dell’uomo contro il potere del fato.
2. Dice Prometeo ad Epimeteo in Esiodo : “Non accettare i doni che ti offre Zeus Olimpio, ma rimandali indietro”.
3. Menandro sostiene: “Non si può dire , finchè si è in vita, questo non lo patirò”.Plutarco aggiunge : “ ma si può dire: questo non lo farò!”.
4. Mi piace concludere con un frammento di Sofocle, in cui si cede un po’ alla fortuna, naturalmente quella buona: “ Ciò che si può insegnare lo imparo, ciò che si può trovare lo cerco, ma ciò che è augurabile l’ho chiesto agli dei”

28/08/2006





        
  



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