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Sette anni fa la tragica fine del sottomarino nucleare russo "Kursk K-141"

Teramo | Onoriamo i 118 marinai caduti quel maledetto 10 Agosto del 2000. Persero la vita in circostanze ancora ignote o per un tragico errore? Perché i superstiti non furono salvati in tempo?

di Nicola Facciolini

La tragedia del sottomarino nucleare russo K 141 Kursk

In questo Speciale cercheremo di fare luce su uno dei misteri più controversi nella storia della marina militare moderna. La tragica fine del sottomarino nucleare russo "K-141 Kursk" e dei suoi 118 marinai che il 10 Agosto del 2000 persero la vita in circostanze, per certi versi, ancora ignote.

Ci avvarremo della consultazione delle fonti più autorevoli in materia per offrire al Lettore uno strumento di analisi e valutazione su una vicenda che, dopo la fine del Comunismo sovietico e della Guerra Fredda, pensavamo di aver consegnato definitivamente alla memoria e alla Storia. Oggi, la Russia è quasi un'alleata della Nato e dell'Europa, vi avvia a solidificare le proprie istituzioni democratiche liberamente elette ma i rigurgiti del passato ogni tanto affiorano pericolosamente in superficie e i misteri del controverso ex servizio segreto KGB, sono più oscuri che mai.

Se a tutto ciò aggiungiamo che sottomarini simili al Kursk e di più evoluti, ancora oggi in possesso a tutte le marine militari nucleari del pianeta (compresa l'Italia), solcano i 7 Mari a caccia o a difesa di non si sa bene che cosa, allora possiamo star certi che l'incubo dell'improvvisa Terza o Quarta Guerra Mondiale, non è finito. Anzi. Eppure il Kursk si inabissò in circostanze ancora poco chiare, carico delle sue micidiali armi nucleari in grado, se fossero state lanciate, di devastare l'Europa in pochi minuti.

Ma torniamo indietro nel tempo, in fondo al mare di Barents, a quegli attimi fatali, subito dopo l'esplosione della prua del Kursk. "Ci sono 23 persone qui. Abbiamo deciso di spostarci perché nessuno può lasciare il sottomarino. E' buio per scrivere, ma cercherò di scrivere a tentoni. Sembra che non ci siano speranze, il 10-20 per cento. Speriamo che almeno qualcuno leggerà. Qui sono gli elenchi dei membri dell'equipaggio delle varie sezioni che si trovano ora nella nona e che cercheranno di uscire". La conclusione del messaggio è un ultimo addio ai parenti e amici: "Saluti a tutti, non dovete disperarvi". Non è il brano di un libro o film di fantascienza, è un fatto di cronaca terribile, realmente accaduto, con tutto l'agghiacciante sapore di irrealtà che potrebbe avere un libro.

Il 12 Agosto del 2000 il sottomarino nucleare russo Kursk si inabissa nel mare di Barents, probabilmente impegnato in esercitazioni nucleari la cui natura reale non è mai stata ben chiarita. Il sottomarino sprofonda nelle gelide acque, impossibilitato a manovrare, lancia un SOS e attende i soccorsi. La notizia viene tenuta segreta al resto del mondo per due giorni interi (ricordate Chernobyl?), il 14 Agosto la Russia denuncia il fatto.

Il capo della marina militare russa dichiara che l'avaria è stata provocata da una manovra errata, ma si sospetterà sempre che si tratti invece di una collisione con un sottomarino di un altra potenza straniera: nessuno tuttavia ammetterà di aver incrociato a quella latitudine con imbarcazioni da guerra. Le navi mercantili che attraversano in quel momento il Mare del Nord riporteranno racconti agghiaccianti di impulsi percepiti dal sonar: l'equipaggio prigioniero del sottomarino era ancora vivo e stava tentando di comunicare con l'esterno battendo sulle paratie metalliche una sorta di rudimentale segnale morse come nel film "Caccia a Ottobre Rosso". Ma era tutto vero.

"Sono bloccati a 107 metri di profondità, per quanto ancora potranno resistere?" - erano le domande ricorrenti tra i marinai di passaggio. Gli Stati Uniti d'America offrono subito aiuto ma la Russia rifiuta. Vengono mandati in ricognizione tre piccoli batiscafi, ma ogni cenno di vita alla fine cessò. Finalmente il governo russo accetta le offerte calorose di aiuto che provengono dalla Gran Bretagna e dalla Norvegia. Durante i tentativi di aggancio allo scafo il sottomarino si inclina ulteriormente, solo il 19 Agosto un'adeguata missione di soccorso britannica giunge sul posto con l'attrezzatura adatta per agganciare il portello del sottomarino, e finalmente si riesce a entrare all'interno.

Putin è ancora in vacanza nel Mar Nero e rientra precipitosamente, ma è troppo tardi, quando la Tv via cavo trasmette le prime immagini della spedizione di soccorso, si constata dolorosamente che a bordo non vi è alcun sopravvissuto. Resterà solo a memoria del sacrificio delle 118 persone dell'equipaggio quel biglietto pieno di compunta dignità ritrovato nelle tasche del Tenente Capo Dimitri Kolesnikov.

L'altro tragico incidente del sottomarino russo bloccato sul fondo della baia di Kamtchatka riapre ogni anno un'antica ferita nella memoria dei russi. Mosca anche allora rifiutò l'aiuto dei soccorsi stranieri. Il Kursk, invece, affondò il 12 agosto 2000, durante le manovre nel mare di Barents. La tragedia fu causata forse dall'esplosione di un siluro, che provocò a catena lo scoppio di tutti gli altri del sommergibile, scaraventando il mezzo a 110 metri di profondità. Il 14 agosto del 2000, il comandante della flotta russa definì «scarse» le possibilità di salvare l'equipaggio.

Lo stesso giorno e quello successivo la Norvegia e la Gran Bretagna offrirono il loro aiuto per il salvataggio. Il governo del presidente Vladimir Putin, da poco al potere, si dimostrò reticente ad accettare l'aiuto straniero per salvare l'onore della sua flotta nucleare. Il maltempo ritardò l'operazione di salvataggio russo che iniziò solo il 15 agosto. Due piccoli sottomarini scesero in profondità cercando di agganciare il Kursk e aprire le porte.

Ci provarono per ben sette volte, ma fallirono a causa delle forti correnti sottomarine. Mentre la nazione viveva il dramma del Kursk, il presidente Putin solo quattro giorni dopo intervenne per dire che la situazione era «critica» ma tranquillizzando il Paese perchè la Russia aveva «tutti i mezzi» per il salvataggio. Quando i segnali di vita dall'equipaggio cessarono, il 16 agosto la Russia si decise ad accettare l'aiuto di Londra e Oslo. L'operazione di salvataggio internazionale cominciò solo il 20 agosto, il giorno dopo i norvegesi riuscirono ad aprire il sottomarino, ma era troppo tardi per raggiungere vivi i marinai, molti dei quali avevano cercato rifugio in un compartimento in fondo al mezzo. Il recupero del Kursk e dei corpi prese molti mesi.

In un articolo di Giovanni Bernardi, il 17 luglio 2001, viene analizzata la percezione di pericolo e disfatta in una Marina russa allo sbando dopo la tragedia del Kursk. "La tragedia del sottomarino Kursk scosse l'opinione pubblica occidentale nell'agosto dell'anno scorso, sia per la perdita di 118 vite umane nel mare di Barents, sia per l'indifferenza dimostrata da parte della leadership russa, in particolare di Wladimir Putin. La risposta data a Larry King dal Presidente russo sembrò uno schiaffo in faccia alla sofferenza delle famiglie delle vittime: "E' affondato" disse al giornalista che gli chiedeva un commento sull'avvenimento. Perfino le bugie dette in quella occasione dalle autorità direttamente responsabili della sorte del sottomarino non fecero nulla per sembrare delle verità.

La popolarità del Presidente russo subì a quell'epoca un grave tracollo". Secondo Bernardi il Kremlino avrebbe imparato la lezione e predisposto per l'operazione di recupero quasi uno show che potrebbe sembrare ispirato da esperti di comunicazione americani. Il responsabile delle pubbliche relazioni del Presidente, Sergei Yastrzhembsky, ritiene l'avvenimento un'ottima carta da giocare per l'immagine della Marina russa.

"Una nave condurrà i giornalisti sul luogo della operazione e un centro internazionale stampa è stato costituito a Murmansk. Ma la prima fase dell'avventura si rivela oltremodo difficile e nessuno ne fa mistero. Speciali robot taglieranno la prima sezione dal resto del sottomarino, dove erano contenute le torpedini la cui esplosione è stata causa dell'affondamento. Ma nessuno sa dire se sono esplose tutte. Un secondo rischio proviene dalla seconda e terza sezione dove sono contenuti 24 missili che potrebbero avere ricevuto un grave shock dalla esplosione. A rendere più drammatica la scenografia del recupero vi è un poderoso schieramento della flotta del Mare del Nord: ventitré navi, tra le quali due incrociatori nucleari e due portaerei.

Analisti di Difesa indipendenti russi rimangono scettici al cospetto di un tale schieramento di forze: non è chiaro infatti se gli ammiragli desiderino dimostrare di essere in grado di comandare una flotta imponente o se vogliano - come dicono - fornire cornice di sicurezza. Peraltro, i rischi ci sono indipendentemente dal numero delle navi schierate e la sicurezza relativa ai segreti di funzionamento dei sottomarini nucleari russi è già stata compromessa dall'addestramento fatto fare ai soccorritori sul gemello del Kursk, Oryol.

La verità - secondo alcuni esperti - è che si desideri fare dimenticare il vero motivo dell'intera operazione: la perdita di 118 vite umane. In un primo tempo le dichiarazioni ufficiali parlavano di recupero del sottomarino per potere accertare le cause dell'affondamento. Se la prima sezione viene tagliata e abbandonata in fondo al mare, però, non si riesce a capire come le cause della tragedia possano essere esaminate, visto che sono da studiare proprio nella prima sezione.

Chi ha pianificato l'operazione, d'altra parte, afferma che non c'è altro modo di operare, visto che comunque la prima sezione si staccherebbe ugualmente nella fase di recupero e ne comprometterebbe la dinamica, come sostiene l'ammiraglio Mikhail Barskov. Una delle verità che girano attorno alla operazione è quella secondo la quale il sottomarino debba essere recuperato per il pericolo che costituisce alla intensa navigazione nell'area, soprattutto di battelli da pesca. Ma la verità sulla quale non vi sono dubbi è che nessuna responsabilità sarà accertata fino a quando il recupero non sarà totale, come ha affermato il Presidente Putin.

Nei confronti di nessuno saranno quindi presi provvedimenti disciplinari, amministrativi, penali, nemmeno nei confronti dell'ammiraglio Kuroyedov che per lungo tempo ha affermato che l'affondamento del Kursk era stato causato dalla collisione con un sottomarino inglese o americano: rettaggi di un'antica tecnica di disinformazione comunista".

Mentre nel Mar di Barents continuava il recupero dei corpi dei marinai dal sommergibile russo Kursk affondato il 10 Agosto, e i primi, solenni funerali delle vittime si svolgevano a San Pietroburgo il 2 Novembre successivo, a oltre 100 metri di profondità, nelle gelide acque dell'Artico flagellate dai venti, giaceva una verità incoffessabile. Che 23 uomini dell'equipaggio del Kursk fossero ancora vivi tre giorni dopo l'affondamento. Lo sosteneva il quotidiano moscovita Zhyzn, sulla base delle dichiarazioni dell'ufficiale navale Igor Gryaznov, che aveva condotto i primi esami necroscopici sui corpi recuperati e aveva letto un secondo messaggio, scritto di pugno dal comandante della sezione turbine Dimitri Kolesnikov in un biglietto, trovato in una tasca della sua uniforme. Il biglietto, con calligrafia incerta ma chiara, portava nell'ultima riga la data del 15 Agosto.

La rivelazione sarebbe stata devastante per i capi navali del Cremlino, imputabili di un terribile "cover-up" della verità. Essi dovevano rispondere delle reali cause dell'affondamento, della durata effettiva dell'agonia dell'equipaggio e delle proprie responsabilità in uno scenario di guerra o di Intelligence in cui il Kursk potrebbe essere stato coinvolto.

Chi sostiene convinto che un sommergibile straniero abbia urtato il K-141 è il comandante della Marina ammiraglio Vladimir Kuroyedov, secondo il quale anche la commissione di inchiesta sarebbe stata propensa per la tesi della collisione con un'unità statunitense o britannica. Ma gli esperti occidentali smentirono questa versione, avvalorata dalle lamiere di prua del Kursk, piegate verso l'interno, segno di un urto dall'esterno.

In un precedente articolo di Giovanni Bernardi, del 19 agosto 2000, si analizza l'ascesa e il declino della flotta più potente del mondo. "E' sempre una pena quando si vede morire un gigante, e questa volta il Gulliver del mare trattiene con sé 118 lillipuziani. Eppure, con i suoi 155 metri di lunghezza (non entrerebbe nello stadio di San Siro) non è nemmeno il più grande che sia mai stato costruito: la classe "Typhoon" misura 170 metri.

Assistiamo, però, anche a un'altra agonia, quella della marina russa e, in particolare, di quelli che ne sono stati sempre l'orgoglio: i sottomarini. Attualmente, secondo accreditate stime occidentali, la flotta ne conta - operativi o quasi - un centinaio da combattimento più sei non armati per missioni speciali. Dei cento, una settantina sono a propulsione nucleare; i rimanenti, diesel elettrici.

Dei primi fanno parte quelli che sono armati con missili balistici che possono essere lanciati restando in immersione (sub-marine launched ballistic missile - SLBM), e a questa categoria appartengono le classi Delta I, Delta III, Delta IV, con 16 tubi di lancio, e la già citata Typhoon, con 20. Inoltre, appartiene alla categoria dei sottomarini balistici nucleari, ma deve emergere per lanciare perché porta missili superficie / superficie (surface / surface ballistic missile - SSBM), anche la classe Oscar II, quella del Kursk. Ancora a propulsione nucleare, ma definite "d'attacco" perché non dispongono di missili balistici ma solo di 6/8 tubi lancia siluri, sono le classi Victor III, Sierra I, Sierra II, Akula. I rimanenti - diesel elettrici - sono pure progettati per l'attacco ai vascelli in superficie e considerati d'attacco. In effetti, però, la situazione della flotta russa in genere e, in particolare quella dei sottomarini, è disastrosa.

A causa dei drastici tagli alla spesa militare, manca il carburante per fare esercitazioni, la manutenzione scarseggia o è addirittura nulla, l'addestramento del personale è pressoché inesistente, la pratica della cannibalizazione (riparare un mezzo sostituendo il pezzo guasto con quello di uno inefficiente) è diffusa. Il personale, che fino a dieci anni or sono si considerava di élite, è demotivato, con paga ridotta al minimo e con seri problemi di sopravvivenza. Possiamo quindi dire, con una buona probabilità di indovinarci (ancora oggi non è facile reperire informazioni sicure da fonti russe), che l'operatività della componente sottomarina della flotta russa è, nel migliore dei casi, del 40-50%. Tra l'altro, anche per l'effetto degli accordi sulla riduzione degli armamenti nucleari (Strategic Arms Reduction Talks - START I e START II) un certo numero di battelli sarà dismesso. Eppure, la flotta sottomarina dell'allora Unione Sovietica era la più potente del mondo. Questo, per un motivo facilmente spiegabile.

Nelle previsioni degli strateghi sovietici, anche la terza Guerra Mondiale si sarebbe dovuta combattere in Europa e, poiché gli alleati europei della NATO non sarebbero stati in grado di opporre resistenza alla enorme forza d'urto delle truppe dell'Est, si sarebbe dovuto fare ricorso ai rinforzi provenienti dagli Stati Uniti. Ma questi sarebbero dovuti arrivare per via aerea (un certo numero) e per nave (la maggior parte).

La misura preventiva presa dalla Nato era lo schieramento in Europa di truppe, mezzi, armi e munizioni Usa per resistere almeno al primo attacco. Da parte sovietica, il concetto strategico prevedeva, contemporaneamente all'attacco in profondità per via terra, di tagliare le vie di comunicazione marittime tra Stati Uniti ed Europa mediante una guerra navale condotta soprattutto con i sottomarini. Di qui, il grande sviluppo di mezzi idonei a combattere una guerra atlantica risolutiva. L'avvento delle nuove tecnologie favorì lo sviluppo della propulsione nucleare, in quanto un sottomarino atomico è di gran lunga più silenzioso di uno diesel elettrico e quindi molto difficile da individuare con le apparecchiature delle navi. La tendenza al gigantismo si sviluppò per l'esigenza di montare i missili balistici SLBM in grado di colpire il territorio avversario da notevole distanza e senza dover emergere. Ricordiamo che la classe Typhoon porta 20 missili, ognuno con dieci testate nucleari. Totale: 200 armi atomiche.

La classe Oscar, invece, ne porta "solo" 16 e per lanciare i missili deve emergere. Cosa che non accadrà più al Kursk. Se pure il sommergibile di soccorso inglese RL5 riuscirà a salvare l'equipaggio (Lo speriamo ancora tutti e anche l'ammiraglio Alexandr Pobozhy che dice che "I veri sommergibilisti non perdono mai la speranza") il gigante Kursk resterà in fondo al mare a fare idealmente compagnia agli altri 5 sottomarini nucleari (2 americani e 3 russi) che già dormono negli abissi con i loro equipaggi" - conclude Bernardi.

Oggi, nel 2007, la memoria dei 118 caduti del sottomarino nucleare russo "K-141 Kursk" è affidata alla Fondazione (raggiungibile al sito internet: www.russialink.org.uk/kursk/index.htm) che aiuta le famiglie delle vittime a superare, non solo le difficoltà della vita quotidiana, ma anche il loro peggior incubo: l'amnesia sui fatti del sottomarino Kursh, ossia la perdita di memoria indotta dalle Autorità, ossia l'amnesia politicamente corretta e medicalmente assistita (chi non ricorda la puntura di calmante sommistrata a un familiare dei caduti del Kursk in diretta Tv?). Consigliamo anche la lettura del libro "K-141 La tragedia del Kursk" di Alessandro Turrini, un utile strumento per fare luce sulle cause di uno dei disastri più controversi della marina militare moderna.

09/08/2007





        
  



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La tragedia del sottomarino nucleare russo K 141 Kursk
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