La libertà in Cecco e Dante
Ascoli Piceno | Secondo incontro del ciclo Lecturae Francisci, tenuto dal Prof. Di Vito
di Anna Laura Biagini
Nel Giardino d’Inverno del Circolo Cittadino, si è tenuta la seconda lezione del ciclo Lecturae Francisci, la quarta edizione di incontri che l’Istituto Superiore di Studi Medievali Cecco D’Ascoli, organizza per gli appassionati di letteratura.
Maestro di oggi il Prof. Emilio Di Vito, che ha tenuto la lezione sul tema La libertà in Cecco e Dante. Attraverso la lettura di alcuni passi dell’Acerba di Cecco e della Commedia dantesca, Di Vito ha evidenziato similitudini e divergenze dei due autori, intorno al tema trattato.
Per entrambe, la libertà è spunto per riflettere sul concetto di responsabilità, sia in senso etico, quindi legata alla giustizia umana, che in senso religioso, ovvero il libero arbitrio. Da un lato abbiamo Cecco, “astrologo che divide il mondo terreno da quello celeste”, dall’altro c’è Dante, “che il cielo porta in terra con il mezzo che egli a differenza dell’altro possiede, la poesia”. E mentre Cecco si appella alla fortuna, all’influsso degli astri sulle sorti umane, Dante crede solo nella Provvidenza divina.
Cecco non concepisce l’andare oltre, “l’intelligenza umana si ferma là”, spiega Di Vito, “dove inizia l’oltre. Solo Dante è stato capace di transumare, ma Cecco dubita che il corpo umano possa in qualche modo farsi divino”. Ad unirli è l’idea però che l’uomo sia comunque libero di decidere. Per Cecco l’essere umano può sottrarsi all’influenza negativa degli astri, esercitando così la propria volontà; per Dante, l’uomo ha il libero arbitrio, quello che, “anche se c’è un Dio onnisciente che ha già tutto predisposto, può far sì che la via per giungere alla meta sia mutevole”.
L’uomo di Cecco però, anche se limitato, per sua natura non soccombe alla rinuncia, bensì è il “desio che punge” continuamente a farlo tendere all’oltre, che mai varcherà. Dante invece, che non è scienziato, può elevarsi e superare i limiti umani, anche se lingua mortale non può descrivere ciò che prova, ma solo avvicinarsi alla verità. Disposizione dell’uomo è tendere a Dio e sottrarsi alle negatività del creato, siano esse divine o astrali. Su questo punto gli autori non divergono.
Anzi, Cecco crede fermamente che malgrado l’oroscopo, l’anima debba vincere il corpo, per non essere colpevole. Lo spirito eletto resiste, ma “le anime seguono i corpi”, e “il difetto corporale fa l’anima ladra”, un destino insomma c’è sempre. E se Cecco vede nella fortuna un elemento di definizione del destino, che il cielo traccia attraverso gli influssi astrali, Dante non concepisce sorte, che non sia dettata dalla Provvidenza. “La felicità dantesca non ha niente a che fare con la fortuna, essa è virtute e canoscenza”, la beatitudine non è nel successo.
La virtù però unisce Dante e Cecco, “essa è abito che si acquisisce e se nutrita vince. Libera dal male, anche a costo della vita. Ecco che la libertà passa per la morte, che sbigottisce l’uomo dinanzi alla sua finitezza. Chi supera questo timore, afferma la sua libertà”.
Cecco quindi che resta, che mantiene l’uomo nei limiti e oltre non, Dante che va oltre, varcando la soglia con la poesia.
Prossimo appuntamento con Lecturae Francisci venerdì 11 novembre alle 17, presso la Sala dei Savi, Palazzo dei Capitani. Il Prof. Antonio D’Isidoro terrà una lezione su La giustizia in Dante e Cecco; lettura del canto XII del Purgatorio.
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28/10/2005
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