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Il '68, i sognatori e il maggio tradito

San Benedetto del Tronto | Tonino Armata parte da Bertolucci per ricordare gli “anni di piombo”.

di Tonino Armata

Sono andato a vedere "The dreamers" di Bertolucci. Richiamato dal titolo, tremendamente nostalgico per la mia generazione, quella sessantottina, e dalla storia, ambientata in una stagione fascinosa. In realtà il film non ha niente a che vedere con quel periodo. Potrebbe essere una storia dei nostri giorni, o appartenere per esempio alla freudiana Vienna d'inizio '900. Non cambierebbe una virgola .

Il regista ha precisato che il suo, pur non essendo un film sulle barricate, è un film sull'idealismo giovanile che le ispirò. Solo pubblicità per il film, e anche falsa: i tre personaggi sono ben poco interessanti a quanto sta succedendo nelle piazze, quasi per niente coinvolti dai tumulti sociali, racchiusi nell'alveo domestico, in una cornice atemporale. Bella la trama, intrigante, conturbante, ma per favore, lasciamolo stare quel maggio. Non strumentalizziamo anche quello, solo per richiamare qualche spettatore in più.

Secondo Time, "il '68 fu un rasoio che separò il passato dal futuro". Vero? Vero. Ma, solo nel senso che il '68 fu l'anno cruciale ed emblematico di un gigantesco processo di modernizzazione, le quali prime avvisaglie risalivano agli inizi degli anni '60, e il quale compimento si ebbe (se mai vi fu) solo molto tempo dopo. Ripensare il '68 a trentacinque anni di distanza, non significa solo ripensare fatti e parole di un anno irripetibile. Significa interrogarsi a fondo su un sommovimento di portata più ampia, con l'ambizione di contribuire a spiegare l'Italia d'oggi nei suoi tratti essenziali: classe dirigente, ceti produttivi, idee e valori dominanti.

Ma sbaglia chi ritiene di poter addebitare al '68, e ad esso solo, ritardi e tragedie degli anni Settanta. Se una lezione il '68 ha impartito ai propri eroi e alle proprie vittime, se un'eredità ha lasciato, questa è soprattutto l'aspirazione personale e collettiva alla libertà, l'insofferenza verso ogni rigida predeterminazione dei destini, la critica d'ogni gerarchia non legittimata dalla competenza o almeno dall'impegno, non esclusi (quando occorre) l'irriverenza o lo sberleffo. Di questi umori la società italiana è tuttora intrisa, e a essi deve una parte non piccola della vitalità. Ecco perché ha senso, nel 2003, riandare al nocciolo del '68.

La sinistra non capì

Il Movimento Studentesco non era fatto per sistemarsi facilmente nella politica e nei partiti, neanche in quelli di sinistra, benché fosse senz'altro di sinistra. Erano le sue stesse originalità a tenerlo alla larga. Un movimento legato a una generazione e non a una condizione sociale; che raccoglieva la partecipazione attiva o la simpatia della maggioranza di quella generazione; che per la prima volta nella storia sostituiva ai riti comunitari riservati ai giovani maschi (il servizio militare, le successive "classi di ferro", la goliardia) una comunità, difettosa quanto si vuole, di ragazze e ragazzi; e che insomma pretendeva di vivere a modo suo e fare da sé.

Il Movimento Studentesco apparve loro come una grande conferma, anzi insperata, e una grande occasione. La grande occasione alla quale, da qualche anno, si stavano preparando. Aspettando s'intende, gli operai. Ancora un po', e sarebbero arrivati anche loro.

Quanto a leggere nel '68 solamente l'humus della violenza, bisogna aver dimenticato tutto o quasi di quel periodo. Il femminismo, la critica dell'autoritarismo, i consigli di fabbrica, le 150 ore… ecc. Ci sarebbero stati divorzio e legalizzazione dell'aborto senza il Sessantotto? E se si, con quanti anni di ritardo?

Io fui sessantottino militante all'Università di Milano (ero studente lavoratore. Lavoravo nella più importante Casa Editrice d'Italia). Spero che altri, i quali, hanno più di cinquant'anni, e c'erano dicano qualcosa in difesa di quegli anni indimenticabili, prima che qualche altra iniziativa culturale (si fa per dire), sotterri la verità.

11/11/2003





        
  



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