I miracoli a Cinisi di Santa Fara: la pala d'altare ed il restauro del soffitto
| Carissimo Leonardo Sciascia...
di Giuseppe Giardina
I miracoli a Cinisi di Santa Fara: la pala d'altare ed il restauro del soffitto
CARISSIMO LEONARDO SCIASCIA
"Due artisti" padre e figlio alle prese col podestà avvocato Orlando, con l'arciprete Mangiapane, col ricordo dell'abate Meli e con donna Marannina. Memoria è vita
"
la morte non è né buio né luce, ma solo abolita memoria
"
(Gesualdo Bufalino - LE MENZOGNE DELLA NOTTE)
"LA VIDA ES SUENO"
(Pedro Calderon de la Barca)
"CHI MIRACULU CHI FICI SANTA FARA / LA CHIESA CHIUSA E LA CAMPANA SONA. Che miracolo ha fatto santa Fara / la chiesa chiusa e la campana suona. Non ricordo di quale paese siciliano santa Fara sia patrona, né è mentovata nelle Feste patronali del Pitré; ma ricordo di averne visto l'immagine, e certamente c'è un paese in cui, se non come patrona, gode di un culto particolare".
(Leonardo Sciascia - OCCHIO DI CAPRA)
San Benedetto del Tronto, febbraio 1985
Carissimo Leonardo Sciascia,
mi permetta di aiutarla a ricordare, qual è il paese di cui Santa Fara è Patrona? Cinisi, dietro i monti di Palermo.
Lei ha tantissimi lettori e sicuramente a quest'ora più d'uno le avrà segnalato Cinisi. Avevo otto anni (tutti abbiamo ricordi, memoria), ci andammo a vivere nel 1941 per lo sfollamento, le case basse, imbiancate "azzolu" o rosa, brillano nel sole, eravamo i primi e la gente ci accoglieva con meraviglia e simpatia.
Mio padre, accortosi della grande devozione per Santa Fara, la dipinge dentro una illusoria nicchia nell'alcova della nostra casetta a pianterreno, e per qualche giorno fu un pellegrinaggio di vicini. Tutti buoni, sorridenti e generosi, non ci mancavano limoni, nespole gigantesche e succulente.
E fu così che l'arciprete (padre Mangiapane?) ci commissionò un quadro, una specie di pala, con la madonna e le anime sante dei decollati. E una mamma con i capelli bianchi, una bellissima vecchia siciliana con lo scialle nero, pregò mio padre che tra le anime assetate effigiasse suo figlio, c'erano già i primi morti in guerra, e ricordo che lei teneva la foto-tessera accuratamente avvolta nel fazzoletto, custodito in petto
Fu un successo e l'arciprete (un intellettuale dai modi fini, aristocratici, s'interessava della storia di Cinisi, e di Giovanni Meli che ne era stato medico condotto o cerusico - appresi questa bellissima parola italiana proprio allora - e c'era ancora la casa settecentesca del Poeta a fianco alla matrice, la chiesa) ci mandò un pacchetto ben incartato di cannoli, oltre alla mercede pattuita. E così il podestà Orlando (nipote di tanto nome
), un avvocato, d'accordo con la consulta municipale, ci appaltò il restauro del soffitto d'una stanza del municipio, un ex convento benedettino. Si trattava di riprendere una parte, dipingere uguali certi fiori (o sagome simili) nei riquadri del soffitto.
Mio padre fece costruire l'impalcatura, preparò i pennelli con il "coppo" fatto di cartone, perché il colore a tempera (come bruciavano le dita) scolando si raccogliesse, mi spiegò cosa dovevo fare, salendo su una cassa per arrivare al soffitto, e soprattutto mi istruì su quello che dovevo dire, se durante il mattino veniva il podestà ad informarsi del lavoro: mio padre? é appena uscito per comprare i colori. Bugia, mio padre tutti i giorni raggiungeva Palermo, per essere presente all'ufficio, presso il Compartimento delle F.S. Quel soffitto l'ho restaurato io, anche se i soldi non li vidi mai. Il risultato fu eccellente, riscosse unanime plauso, mio padre ne fu regista e vi diede il tocco finale. Aveva intuito che la mia mano d'"artista" in erba era simile a quella dell'ingenuo "dipintore" benedettino.
Ero piccolo, frequentavo la quarta elementare, e il maestro Cusimano, un geometra (?) che faceva parte della consulta municipale, mi aveva concesso un permesso speciale per motivi
artistici.
Nel primo periodo di sfollamento, mia madre volle stare con noi bambini qualche tempo presso i nostri parenti a Mazara. Mio padre restò a Cinisi, e a lui accudiva una vecchina dalla faccia bianchissima, che profumava di pulito, perché era una vera "marabutta", la parola è araba, probabilmente facile da intendersi, la pratica, come istituzione cinisara, era, a quell'epoca, discretamente diffusa.
C'erano delle beghine, come quelle di Bruges, che facevano voti e vivevano devotamente sole, non avevano bisogno di un pubblico mantenimento, avevano del loro per vivere, fosse pure una piccola rendita familiare. La casetta, linda ed onorata, addobbata di piccole immagini sacre, lumini (chi mi ridà più la simmetrica bellezza di quegli interni ormai irrimediabilmente perduti e sfocati anche nella memoria?).
Donna Marannina, era sordastra, ogni giorno gli preparava (non aveva scrupoli, perché aveva affittato la casetta a noi sfollati, e poi voleva tanto bene a mia madre giovane e bella e a noi bambini) l'ovetto fritto col sugo, la pasta con l'aglio, "a la carrittera" e alla fine chiedeva a mio padre se volesse un dito di vino, che era l'ultimo, il fondo della damigianetta, e invece mio padre sentiva che nel retrostanza il vino gorgogliava nei vari travasi: fatto sta che questo vino (buono, come tutto era buono allora) non finiva mai.
Mio padre meritava questo trattamento, aveva conquistato tutti perché aveva effigiato la dolce santuzza, in abiti monacali, compagna delle notti paurose dei carrettieri, dei bracianti, dei pecorai sul "muntaneddru" che sta di fronte all'abate Meli, quando all'alba è già in alto, raggiunta la specola, una fessura nella roccia là dove finisce (o inizia) il ripido declivio della montagna che incombe su Cinisi (qualcuno scriveva, allora, che il monte Mircene significasse "enorme cane" accovacciato, disteso).
"Dimmi, dimmi, apuzza nica, / Unni vai cusì matinu? / Nun c'è cima chi arrussica / Di lu munti a nui vicinu
"
Di fronte a casa nostra, a Cinisi, abitavano certi Badalamenti.
Caro Leonardo Sciascia non intendo adularla, ma sono un suo grande ammiratore, li ho letti tutti i suoi libri, da adulto, perché quando ero ragazzo, al liceo, forse non potevo comprarli (leggevo tanta B.U.R.), ma pure erano come dire
all'indice, perché li leggeva, con l'arroganza di chi è più bravo, e nel giusto, un nostro compagno, vecchiettiano, oggi stimato "dirigenziale", che recentemente mi ha detto d'essere suo "amico", forse con una punta d'esagerazione, del resto simpaticamente perdonabile.
O forse è vero che il mio amico è amico di Leonardo Sciascia. Io, per parte mia, mi accontento di sperare di non averla tediata, e ringraziarla e invidiarla, perché vive in Sicilia (un mio amico degli anni '50, un pittore colombiano, Leonel Gòngora, venuto a vivere a Mazara, perché diceva, come van Gogh, "el sol aqui me ciega", mi rimproverava che non avessimo una scuola di pittura del sud, un modo tutto nostro. E invece abbiamo "Cosa nostra". Che pena).
Come mai Guttuso non le ha fatto un bel ritratto? La sua faccia, non che il nome, è araba e satiresca (non si offenda) come quella di Pirandello
Armato di coraggio, Le invio un mio acquerello e, con tanta vergogna, un mio racconto, chissà se vorrà leggerlo: può cestinarli ambedue.
Mi creda cordialmente
Peppe Giardina
Rileggo questa lettera, che non ho mai spedita al grande scrittore di Racalmuto, amato e conosciuto anche fuori d'Italia, e lo ricordo vivo e presente, con il suo impegno di adamantina purezza e la ricchezza della sua lezione.
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02/08/2003
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