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Torture in Iraq

| Lasciare quel paese per salvare l'occidente.

di Tonino Armata

E' una tragedia dell'occidente, quella che va in scena nelle prigioni dell'Iraq e rimbalza come un atto d'accusa nei siti Internet e nelle televisioni in ogni angolo del deserto e in ogni città araba.

Quei corpi torturati, ammucchiati, trascinati al guinzaglio e scherniti sono di soldati musulmani: umiliati nella loro impotenza, degradati a irrisione sessuale dei loro codici culturali, profanati in simboli rovesciati delle loro credenze, trasmettono nel loro mondo un'idea terribile del nostro concetto di vittoria e della moralità del nostro potere tecnologico, militare, politico.

A noi, al nostro mondo, chiedono ancora una volta, semplicemente "se questo è un uomo". Siamo nuovamente protagonisti di un sopruso sul singolo uomo che va al di là della guerra e che nessuna guerra giustifica.

Tutto questo, non solo da parte del più grande esercito della terra e dell'unica superpotenza egemone dopo gli anni della guerra fredda. Ma in nome dell'Occidente e dei suoi valori, della democrazia, del diritto, del nostro ordine mondiale.

Cioè di tutto ciò che noi siamo, di ciò in cui crediamo. Non ha molta importanza, a questo punto, sapere se il pentagono ha ordinato ai suoi soldati di superare ogni limite e ogni codice nei confronti dei prigionieri di Abu Ghraib, o se la violenza e insieme sistematica e "spontanea", dunque legittimata di fatto da un clima e da un metodo di conduzione della guerra.

E' importante per la giustizia e per la politica. Ma dal punto di vista della moralità pubblica, tutto è già perduto nel fondo di quella prigione, nei flash di quelle fotografie, nell'uso privato di quella tragedia pubblica che adesso tutto il mondo conosce.

E anche se c'è stato ritardo, reticenza e imbarazzo (compresa l'Italia purtroppo) nel denunciare la gravità della tortura, oggi è chiaro che niente è più come prima. La modalità stessa dell'Occidente è sotto accusa, la sua cultura e i suoi valori.

Dunque la sua anima. Per salvarla, non bastano le scuse e non basta nemmeno il sacrificio rituale Rumsfeld chiesto dall'opinione pubblica. Occorre un'assunzione di responsabilità, per ripetere ancora una volta ciò che dico dall'11 settembre: la democrazia ha il diritto-dovere di difendersi, colpendo (per paradosso anche preventivamente) chi minaccia la sua sopravvivenza.

Ma - ecco il punto - può farlo solo a patto di restare se stessa, di rimanere dentro le regole che si è data, di sottomettersi ai valori e ai princìpi in cui crede, di confermare la sua identità distintiva. In Iraq si è superato questo limite, estremo perché snaturante. E' infatti il confine oltre il quale la democrazia incomincia a dubitare di se stessa, perché deve nascondere atti e comportamenti di cui si vergogna, e incomincia pericolosamente ad assomigliare in qualche angolo d'ombra al ritratto demoniaco che ne fanno i suoi nemici.

Ecco perché l'Italia deve sentire il dovere di non restare in Iraq. Deve andarsene, e per l'opposto di una fuga, di un ripiegamento, di una rottura di solidarietà occidentale. Anzi. Si impone un'assunzione di responsabilità, che separi la politica proprio in nome di una comunanza di valori e di cultura, che noi chiamiamo Occidente.

Solo così si può far capire all'amministrazione americana, e anche a quell'opinione pubblica, che c'è un modo diverso di dirsi occidentali, che certe pratiche segnano una rottura, che l'Occidente non è mai stato un sistema di deleghe, e che certo non può esserlo per l'ordine di scatenare l'inferno ad Abu Ghraib.

La guerra era sbagliata, perché mancavano le armi di distruzione di massa, sia i legami operativi tra Saddam e Bin Laden, cioè le due pseudoragioni del conflitto. Era illegittima perché fuori della legalità internazionale, atto fondativo dell'unilateralismo libero e autonomo della superpotenza egemone. Era un errore anche politico perché spaccava l'Europa tra vecchia e nuova e rompeva la lunga alleanza novecentesca tra i due continenti.

L'invio italiano di truppe a guerra che si pensava finita era un piccolo, grave gesto che mescolava titanismo e dilettantismo, velleitarismo e ideologismo, nella speranza ridicola di accreditare il capo del governo come migliore amico di Bush e la sua Italia come piccola potenza solitaria e gregaria in Europa.

Tutto questo è andato in frantumi, nella guerra che si è riaccesa in Iraq, ma prima e soprattutto nel buio del carcere delle torture. Sono saltate, dopo quel che si è conosciuto, le regole d'ingaggio di una missione che ha promesso al Parlamento di voler "aiutare il popolo iracheno, garantendo la sua sicurezza".

Oggi l'Italia deve sentire la responsabilità di rientrare: in Europa innanzitutto, per testimoniare nell'amicizia con gli Usa gli errori di Bush e la nostra concezione del diritto e della legalità internazionale. Solo da qui da un rinnovato patto occidentale di regole e valori condivisi, può nascere una strategia utile per i dopoguerra iracheni e per la pace in Medio Oriente.

Ma soprattutto questo è l'unico modo per salvare l'anima dell'Occidente, perduta nell'orrore di Abu Ghraib.

 

21/05/2004





        
  



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