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Tra Buddha e i generali

San Benedetto del Tronto | In uno storico saggio intitolato World Conqueror, World Renouncer, il sociologo Tambiah suggeriva che la società thailandese abbia un dna duale che non permette di ricondurre a unità né la cultura né le istituzioni del paese.

di Renato Novelli


Simbolo di questo dualismo è la convivenza tra la rinuncia del mondo da parte del clero buddista e la famelica violenza di potere dei generali. Parliamo del secolo scorso, ma di fronte al colpo di stato di martedì 19 settembre a Bangkok, l'analisi di Tambiah non può che tornare alla mente.

I vertici militari che hanno preso il potere in Thailandia hanno l'appoggio silenzioso del re Bhumobol Adulyadej, del vecchio generale Prem che aveva riportato il paese alla democrazia dopo il sanguinoso colpo di stato del 1976, e del generale Chamlong, che nel 1992 aveva sconfitto con la mobilitazione non violenta i golpisti del 1991. Con i generali stanno anche tutti i ceti modernizzanti della Thailandia, quelli aperti alla democrazia nel senso della rispettabilità politica e quelli aperti alla democrazia come solidarietà sociale e decentramento reale dei processi decisionali. Forse altrettanto silenziosamente stanno (e certo stavano) dalla parte del primo ministro, autoritario e accentratore, i contadini poveri e molti abitanti delle zone rurali. E naturalmente con lui stanno i molti spregiudicati affaristi che avevano prosperato negli anni del suo dominio politico.

Il paradosso è forse accettabile, ma restano due fattori di scontento e preoccupazione. Nel 1992 l'esercito aveva perso il ruolo politico giocato fin dalla rivoluzione del 1932 e ora lo ha riguadagnato. Allora gli ufficiali tornati dall'Europa, forse con l'appoggio tacito del re di allora, avevano imposto la democrazia. Poi per tutti gli anni a venire, con più di 30 colpi di stato, hanno imposto un governo filogiapponese negli anni '40 e regimi fortemente repressivi nel lungo dopoguerra. Anche se questa volta l'azione sembra vicina a quella del '32 - di nuovo la democrazia - è inquietante che l'esercito sia di nuovo il soggetto politico chiave. Taksin se ne va sconfitto, ma non da una sconfitta elettorale o da una mobilitazione di massa vittoriosa.

Eppure la stessa società civile che oggi sembra approvare silenziosamente il golpe non è più solo un'élite intellettuale di Ong e di ambientalismo: dalla mobilitazione post tsunami in poi parliamo di una vasta area sociale, diversa al proprio interno, che lavora con le professioni e l'elaborazione culturale per un modello di sviluppo adeguato al paese nella sua interezza. E però questa evoluzione non si è tradotta in capacità di gestione diretta della crisi politica.

A livello regionale poi la Thailandia è il paese più democratico dell'area: tra un presidente delle Filippine delegittimato per brogli elettorali quanto lo era Taksin per i suoi affari privati, un'Indonesia con molti guai, l'Indocina dalla democrazia limitata alle sfere della cinematografia, della letteratura e degli affari, la Malaysia con un regime della democrazia delle élite e Myanmar (la Birmania) con i peggiori generali della terra al potere. Mentre l'ombra della Cina e il ruolo specifico dello Yunnan sta ridisegnando gli equilibri dell'intera regione.

Il colpo di stato a Bangkok non è un bel segnale, per nessuno. Anche se il populista autoritario Taksin se ne andrà a casa.

25/09/2006





        
  



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