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Una battaglia di civilta’: mutare radicalmente le condizioni in cui versa il sistema carcerario

San Benedetto del Tronto | I detenuti ristretti nei penitenziari italiani sono circa 68.000: di questi il 30% sono tossicodipendenti, il 30% stranieri, mentre il 20% è costituito da imputati di reati commessi in uno stato di disagio psichico, solo il 4-5% è imputato di reati gravi.

di Silvio Venieri

La capienza delle carceri italiane è stimata in circa 45.000 posti letto regolamentari, con la conseguenza che, rispetto alla indicata popolazione, tutti i parametri sono fuorilegge, considerando il numero dei detenuti, i metri quadri che questi hanno a disposizione, le condizioni igieniche dei servizi, il numero di ore trascorse fuori dalla cella (a Poggioreale sono ben 22 le ore giornaliere in cui si rimane tra le quattro mura).

Costringere a vivere lo stato detentivo in condizioni subumane equivale ad aggiungere alla pena della privazione della libertà personale afflizioni aggiuntive tali da configurare un vero e proprio assoggettamento ad una condizione di tortura, in palese violazione del dettato costituzionale (l'art. 27 della nostra Carta Costituzionale recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato") e delle normative sovranazionali poste a tutela dei diritti primari della persona (per tali motivi l'Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per ben cinque volte negli ultimi anni).

Determinante per il denunziato sovraffollamento è stato il susseguirsi di provvedimenti legislativi criminogeni: la legge sull'immigrazione Bossi-Fini, la legge sulle tossicodipendenze Fini-Giovanardi, la legge Cirielli disciplinante le misure alternative al carcere.

Ma su tutto è risultato estremamente nocivo il clima generale che da alcuni anni a questa parte si respira nel nostro Paese (ma non solo, allargando lo sguardo ad altre nazioni del continente europeo e a quelle oltreoceano), dove le formazioni politiche, per mere speculazioni elettoralistiche, hanno enfatizzato il tema della sicurezza, instillando nella popolazione una sensazione di precarietà e di vulnerabilità (di volta in volta, individuando i "nemici" di turno negli extracomunitari, nei romeni, nei nomadi, nei tossicodipendenti), con un aumento della percezione dell'insicurezza indipendentemente dall'effettivo incremento dei reati.

Da cassa di risonanza hanno fatto i mezzi di comunicazione riversando sull'opinione pubblica ondate sempre più invasive di notizie attinte dalla cronaca nera e giudiziaria, con il doppio perverso effetto, da un lato, di alimentare un ingiustificato stato di allarme e, dall'altro, di ignorare temi fondamentali legati alle reali esigenze informative del pubblico.

Fatto sta che, facendo perno su un sentimento ancestrale da sempre presente nell'uomo (Thomas Hobbes confessava: "La sola grande passione della mia vita è stata la paura"), l'unico moto emotivo capace di smuovere gli orientamenti collettivi appare la crescente paura avvertita nei confronti di tutto ciò che si ritiene possa minacciare l'elevato livello di benessere conquistato nelle società di capitalismo avanzato (secondo lo scrittore e critico letterario Antonio Scurati, il cosiddetto "fattore S" - S come sicurezza - si sarebbe sostituito al "fattore K").

Il carattere afflittivo e retributivo della pena è una caratteristica costante del nostro sistema penale ma non solo (Dante nella sua Commedia determina le pene a cui sono sottoposti i dannati per somiglianza e per contrasto rispetto al peccato commesso, con l'intento di evidenziare la commisurazione della condanna al peccato) e tra le pene contemplate all'ordinamento da sempre è prevista la detenzione in carcere, la cui durata è proporzionata alla gravità del reato oggetto della condanna da scontare. Il convincimento di base è quello di corrispondere il male commesso dal reo con il male da infliggere allo stesso, indipendentemente dall'efficacia della pena di impedire futuri comportamenti devianti.

In una società improntata a criteri gerarchici, come la nostra, chi è più in alto nella scala sociale (economica) riesce a sventare il rischio del carcere rispetto a chi, non essendo dotato di sufficienti capacità reddituali e di adeguate risorse intellettuali, rimane impigliato nella rete vischiosa, talvolta perversa, del sistema giustizia.

Da questa considerazione deriva l'ormai stereotipata, ma, non per questo meno emblematica, definizione del sistema carceraio italiano come una "discarica sociale", vale a dire il prodotto finale di un meccanismo di selezione che conduce alla separazione ed alla emarginazione di coloro che sono considerati fuori del circuito sociale ufficiale, fenomeno questo che riproduce quanto accade a coloro che non reggono i ritmi, sempre più sincopati, della società consumistica, dove i consumatori inadeguati e difettosi vengono derubricati come passività (a tal proposito, Zygmunt Bauman, "Consumo, dunque sono", Editori Laterza, Bari, 2008).

Il carcere, nelle condizioni date, non svolge alcuna funzione di prevenzione speciale (cioè di evitare che il reo torni a delinquere) e di prevenzione generale (la minaccia della pena non costituisce un deterrente per la commissione di reati) e, tra l'altro, costituisce un onere non indifferente per le asfittiche finanze pubbliche (dai 100 ai 150 Euro per detenuto al giorno).

Occorre, pertanto, essere animati da una logica coraggiosa, in quanto consapevolmente contraria a quello che appare l'orientamento maggioritario della popolazione, che postuli alcuni fondamentali principi: la riduzione dell'area del penalmente rilevante, quindi del ricorso al processo penale; l'istituzione e l'ampliamento degli strumenti riconciliativi e riparativi; la neutralizzazione del responsabile di reati con l'attuazione di strumenti alternativi alla detenzione, per riservare quest'ultima esclusivamente ai casi in cui sono messi a repentaglio i diritti fondamentali; la commisurazione della durata della restrizione in carcere proporzionalmente alla necessità di recupero.

In ogni caso lo stato di privazione della libertà personale deve essere congegnato in maniera tale da rispettare la dignità personale del detenuto: va evitato il sovraffollamento degli istituti penitenziari; deve essere ridotto al massimo il tempo di permanenza del detenuto in cella; si deve garantire, con strutture e personale adeguati, il diritto alla salute del carcerato; la possibilità di accedere all'istruzione e al lavoro deve essere concretamente attuata; i legami relazionali e affettivi, per quanto possibile, devono poter essere mantenuti.  Si afferma, a ragione, che la civiltà di una nazione la si misura dallo stato in cui versano le sue carceri.

 

23/07/2011





        
  



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