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Intervista a Piero Fassino in tema economico

Sant'Elpidio a Mare | Dalla situazione nazionale a quella del distretto calzaturiero

di Stefania Ceteroni

Memore di una precedente visita in città per affrontare le problematiche del settore calzaturiero, Piero Fassino è tornato a parlare di argomenti economici tra le stesse mura che lo ospitarono allora da ministro e che lo hanno ospitato con lo stesso calore.
“Mi aveva colpito già allora il rapporto tra numero di imprese e di addetti – ha esordito – e credo che sia un esempio molto significativo del nanismo delle imprese”.
Onorevole, dove è iniziata la sua visita nelle Marche?
“Sono tornato volentieri in questa regione e sono stato qualche settimana fa in provincia di Ancona e Pesaro, oggi in provincia di Macera e Ascoli-Fermo”.
“L’Italia sta vivendo un periodo difficile. Qualche giorno fa l’Istat ha presentato il suo rapporto annuale sullo stato del Paese e questo rapporto conferma quello che noi dell’opposizione diciamo da tempo e che in realtà aveva detto il rapporto del Censis.

L’Italia è un Paese con le pile scariche. E’ meno competitivo, meno reattivo, che rischia di diventare più piccolo ed offrire meno opportunità, meno possibilità alle famiglie e alle sue imprese. Da tre anni il Paese è a crescita zero, in questi ultimi tra anni nella scala delle esportazioni siamo passati dal terzo posto al quindicesimo e ciò è un dato molto negativo per un Paese come il nostro che è un grande esportatore. In tre anni gli investimenti in ricerca pubblica ed innovazione si sono ridotti del 30%: già si spendeva poco, ora si spende ancora meno in un settore fondamentale per sostenere la competitività.

Abbiamo un grado di obsolescenza del sistema infrastrutturale che è più grave di altri Paesi nostri competitori. Abbiamo avuto un tasso di investimento-reinvestimento dell’utile di impresa che è molto basso, sul piano sociale abbiamo una contrazione dei redditi ed una contrazione della capacità di spesa facilmente verificabile come effetto di un’alta incidenza del caro vita, e abbiamo una politica che questo Governo sta facendo sul fronte sociale nel tentativo di ridurre lo stato sociale e i suoi servizi. Tutto questo rende il Paese più fragile.

Non che l’Italia non abbia le risorse per affrontare ciò visto che è un Paese grande, ricco di potenzialità e risorse. Il problema è che manca una guida politica che sia in grado di mettere in campo tali risorse. Il punto di debolezza, la crisi del Paese, è prima di tutto di leadership. Il Paese è grande, ma chi lo guida è piccolo: questa è la contraddizione che l’Italia sta vivendo oggi”.
Nello specifico del calzaturiero?
“Nel settore calzaturiero si riproduce in modo emblematico e simbolico i tratti del sistema produttivo del Paese con una diffusissima rete di piccole imprese. La piccola e media impresa ha un vantaggio: quello della estrema flessibilità nel poter cambiare prodotto. Ma la piccola impresa ha dei limiti: produttivi e di costi, di autofinanziamento, di accesso ai mercati, d’innovazione. Tutto questo richiama problemi connessi come la formazione della forza lavoro, il sistema infrastrutturale…

Sono esattamente i problemi di cui soffre l’intero sistema italiano. Guardando al calzaturiero viene fuori che i problemi di questo settore sono affrontabili solo con una logica di sistema. Noi viviamo in un mercato che sul piano europeo è integrato, sul piano di globalizzazione tende ad integrarsi sempre più e su questi mercati si affacciano nuovi produttori che fino a pochi anni fa non c’erano: Cina, India, Brasile e quant’altro. Il nostro sistema produttivo deve fare i conti con un mercato più ampio e con più concorrenti”.
Come si vince la sfida?
“La sfida si vince sul piano della qualità come elemento fondamentale della competitività, con una continua politica di innovazione e così via. Serve quella che io richiamavo sopra: una politica di sistema. Non è possibile vincere sul piano della competitività se ogni azienda affronta il mercato da sola. Servono fattori di sistema. Ciò vuol dire investimento pubblico molto forte a sostegno dell’innovazione, politiche di sostegno all’internazionalizzazione (non affidandosi solo alla dinamica spontanea)  mettendo a disposizione strumenti che al suo interno l’azienda non ha.

Fondamentale è anche l’investimento sui mercati in cui si esporta: quando un’azienda investe sul mercato non contrae le sue esportazioni ma le rafforza perché presidia quel mercato. Ma per le piccole  imprese, da sole, l’investimento su mercati stranieri è impensabile. Anche in questo caso il punto è quello della messa a sistema di sostegni che consentano ad una impresa di non essere sola e trovare in politiche pubbliche quelle risorse che non ha. Diventano decisive le politiche pubbliche. Accanto all’iniziativa imprenditoriale di ogni impresa deve esserci un’iniziativa pubblica che metta a disposizione ciò che l’azienda, da sola, non ha”.
Si riferisce al ruolo dello Stato?
“Non solo. Tale discorso vale per i governi a tutti i livelli, fino a quelli regionali, provinciali e comunali anche se, è evidente, con poteri diversi da quelli dello Stato. Se si vuole garantire che il sistema produttivo non veda ridurre la competizione, deve essere alzata la dimensione sistemica perché è questo il punto debole. E torno ai dati dell’Istat.

Sono dati che mi preoccupano perché in questi tre anni la politica del nostro Paese non ha innalzato il livello sistemico che, al contrario, si è abbassato. Quando riduciamo le risorse per la formazione, quando non si investe in sapere, in conoscenza, quando non c’è una strategia di modernizzazione infrastrutturale sono tutti elementi di debolezza di un sistema che lamenta di non essere sostenuto in un momento in cui la concorrenza internazionale diventa molto più agguerrita. E non si può pensare che la concorrenza si vince sul fronte del protezionismo aumentando i dazi, come sostiene Tremonti”.
“Serve una strategia di politica industriale, di politica economica, finanziare, commerciale, della ricerca, dell’internazionalizzazione e che vada messa a disposizione delle imprese. Il ruolo della politica non è quello di sostituire gli imprenditori ma di ascoltarli: debbono essere gli imprenditori a dire ciò di cui hanno bisogno e la politica deve recepire tali indicazioni ed agire di conseguenza”.
Qual è, secondo lei, lo stato d’animo della popolazione Italiana, ad oggi?
“Sicuramente uno stato d’animo di maggiore preoccupazione rispetto a tre anni fa. Le famiglie hanno un reddito che vale di meno, i figli hanno lavori a termine o a tempo  determinato che non permette loro di programmare il futuro, le imprese avevano sperato che il fatto che  diventasse Primo Ministro un imprenditore determinasse automaticamente una maggiore capacità di corrispondere alle esigenze di sistema ma non è stato così”.

22/05/2004





        
  



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