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A colloquio con Paolo Nori. Vade retro detrattori!

San Benedetto del Tronto | In margine alla presentazione del suo ultimo libro ‘Gli scarti', lo scrittore racconta finalmente… di cosa parlano i suoi libri.

di Giovanni Desideri

Paolo Nori ha 40 anni, è nato a Parma ma vive a Bologna. Ha iniziato a scrivere nel '96, giusto sette anni fa. Da allora però non conosce soste. Ha già pubblicato una decina di titoli: Le cose non sono le cose (Fernandel, Ravenna, 1999); Bassotuba non c'è (DeriveApprodi, Roma, 1999, poi Einaudi, Torino, 2000); Spinoza (2000), Diavoli (2001), Grandi ustionati (2001) e Si chiama Francesca, questo romanzo (2002), questi ultimi tutti per Einaudi. Quest'anno, infine, con cambio di editore, Gli scarti (Feltrinelli, Milano, pp. 146, 8 €) libro che ieri sera ha presentato a San Benedetto (v. articolo correlato).

Ha già pronti due o tre altri libri, tra romanzi e traduzioni dal russo, lingua in cui è laureato ("ho iniziato a scrivere a 33 anni dopo aver finito l'università perché non sapevo proprio cosa fare nella vita. Scrivere è stata proprio l'ultima spiaggia").

Pubblico e critica non possono essere tiepidi nei suoi confronti: o contro o a favore, per via del suo stile originalissimo, dei suoi libri in cui Learco Ferrari, sempre lo stesso alter ego, fagocita tutta la realtà che lo circonda, tutti i fatti che gli capitano, senza una trama.

Signor Nori, cosa risponde a quelli che la accusano di raccontare sempre le stesse barzellette?
Le critiche che mi vengono rivolte hanno il difetto di guardare ad un romanzo per il suo contenuto. Così esisterebbero romanzi sul 'problema dei giovani', sul 'problema della droga', sul 'problema della prostituzione' e così via. I miei libri sono invece costruiti a partire da uno stile, dalla forma. Il problema che mi pongo non è 'cosa' scrivere ma 'come' scriverlo. Cosa scrivere lo decido scrivendo. E se Schopenhauer dice nei Parerga e Paralipomena, nel capitolo 'Sul mestiere dello scrittore e sullo stile' che esistono due tipi di scrittori, quelli che prima di iniziare a scrivere sanno già cosa scriveranno e quelli che invece lo decidono scrivendo, io appartengo senz'altro alla seconda categoria. Altro discorso è che io possa aver voglia di cambiare. Dopotutto lo stile che uso ancora nel mio ultimo libro, Gli scarti, si era imposto da sé. Da sé potrebbe lasciare il posto a qualcos'altro.

Dobbiamo aspettarci un libro 'tradizionale', con una trama e colpi di scena, stile 'I tre moschiettieri'?
Può darsi che io torni a servirmi di una qualche trama. Anzi, in effetti qualcosa del genere la sto già preparando. Ma non è una svolta.

Abbandonerà il suo alter ego Learco Ferrari?
Nulla è deciso, ma intanto vorrei dire che Learco Ferrari non sono io: la letteratura per me è forma più che contenuto, dunque Learco Ferrari non sono io. Non credo che mi metterei mai a raccontare della mia vita.

Ad ogni modo anche i suoi critici parlano dell'originalità del suo stile. È un'originalità senza modelli?
Al contrario. Leggo moltissimo da sempre e per quanto riguarda il mio stile direi che mi sono ispirato a Thomas Bernhard, al suo stile così musicale, sinfonie in certe pagine. Oppure allo stile di Sciascia, che già solo per il modo in cui usava la punteggiatura avrebbe meritato il Nobel, come dice un mio amico che ha insegnato 'letteratura italiana' al Mit di Boston. Un'altra mia fonte sono certamente i libri di Gianni Celati, o quelli di Natalìa Ginzburg.

Quali sono i procedimenti che lei predilige per il suo tipo di scrittura?
Uno su tutti la ripetizione, che è un procedimento che si ritiene privilegio esclusivo della poesia. Credo invece che ripetere le stesse parole o le stesse frasi sia un procedimento che racchiude molte possibilità. È vero che a scuola si impara giustamente a non ripetersi, per dimostrare di aver acquisito delle competenze, ma credo proprio che nella prosa sia una buona tecnica. Gli autori russi del '900, per esempio, la usano molto. La scelta determinante che ho fatto, però, è stata quella di tentare di riprodurre il parlato, che in Italia è sempre un parlato regionale, non esistendo una vera lingua italiana, pura e uguale per tutti. Quando scrivo leggo ad alta voce ciò che scrivo e lo modifico o lo mantengo se suona bene.

Come detto, quelli che hanno letto almeno un libro di Paolo Nori si dividono ormai in due partiti, di persone con predilezioni o avversioni forse più marcate di quanto non avvenga per altri scrittori. Che sia per alimentare il partito dei detrattori o degli entusiasti non è allora fuori luogo il consiglio di leggerlo, almeno quel libro: sicuramente sarà una scoperta.

28/08/2003





        
  



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