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Intervista a Claudio Tribuiani

San Benedetto del Tronto | Un percorso della sua vita nel racconto raccolto dal Dottor Giovanni Corradetti

di Giovanni Corradetti

Claudio Tribuiani

L'appuntamento è al bar Funny, nella saletta attigua al bancone. Alle dieci; quando di solito i clienti delle colazioni sono sciamati e ci si può sedere senza essere disturbati.
Claudio ha voluto raccontare la sua vita, l'ha fortemente voluto. «Fare un libro è molto impegnativo» gli avevo spiegato «ci vogliono tempo e sponsor; è un progetto molto bello ma per adesso irrealizzabile». Mi aveva guardato fisso negli occhi e aveva detto: « Vada per l'intervista, allora, anche l'assessora è d'accordo. Ma alla fine la voglio rileggere, però» aveva chiesto con fermezza e convinzione.

Arriva in perfetto orario con la sua andatura ciondolante e l'eterna cartellina in mano; uno scrigno prezioso dove raccoglie appunti, programmi e proggetti. Si siede dopo avermi salutato calorosamente ed è già lì che aspetta la mia prima domanda.

«Vuoi il caffè Claudio?»
«No, per adesso, andiamo avanti» dice con la sua voce forte e stentorea. «Partiamo dalla tua infanzia, Claudio» dico, pigiando il tasto della registrazione, e un fiume in piena di ricordi inonda lo spazio attorno. « Sono nato nel 1952 a San Benedetto del Tronto, presso la clinica Perotti, nella sua vecchia sede. La mia è stata un'infanzia normalissima; ero un bambino vivace e pieno di iniziative. Un bambino come tanti altri.»

« Cosa mi dici dei genitori?»
« Mia mamma, brava ma impicciona come tutte le mamme; mi rimproverava continuamente e l'ho fa tutt'ora, dato che vivo con lei, proprio qui dietro. Padre nella polizia, rigido e tutto d'un pezzo, di destra. Ho sofferto un po' il suo carattere, ma devo dire che ha sempre sostenuto i miei studi e non mi ha fatto mancare niente.» « A proposito di studi, quale istituto hai frequentato dopo le medie?»« Il liceo scientifico e poi Ingegneria a Bologna.»

«Come ti sei trovato a Bologna?»
«
Bene e male; sai, io e la mia famiglia non eravamo comunisti.» Sorride. «Lì sono diventato ciellino.» Volevo chiedere qualcosa di più ma lui continua cercando di sgomitolare un ricordo importante e ben preciso. «In tre anni ho dato solo quattro esami; ero un po' lento a studiare. Poi la mia vita cambiò perché un giorno - ero a Miramare di Rimini col mio amico Forlani - incontrai la persona che avrei sposato.»

Per cinque minuti, senza interruzioni, Claudio racconta di come da quella unione fosse nato il suo unico figlio che gli ha dato due nipotine e che vede due, tre volte l'anno. Dovette sospendere l'università e adattarsi a fare diversi mestieri. Era il millenovecentosettantacinque. Quattro anni dopo, le avvisaglie del suo disagio che lo portarono al primo ricovero a Modena. Poi il trasferimento a San Benedetto e l'affidamento ai servizi locali di salute mentale; l'allentamento progressivo dei rapporti con sua moglie. «Ho avuto cinque donne nella mia vita e tutte col senso di morte» così dice! A partire da mia madre che vide morire un nipotino in macchina mentre lo trasportava in ospedale e poi tre miei fratellini. E le altre; mia moglie e quelle che ho conosciuto dopo.»

Qui Claudio è un po' evasivo; io non insisto e rispetto la sua privacy.
Cominciava la tenace battaglia con la sua malattia che non rinnega e che anzi «mi ha rafforzato e mi ha permesso di fare e di occuparmi di cose che mi appassionano, di conoscere tanta gente.» Un messaggio di speranza e di vita a tutti quelli che si trovano nelle sue condizioni. «Ho tanta esperienza in questa sorta di problemi che potrei dare consigli a tutti e anche curare.» Si scusa, sapendo di averla detta grossa.

«Quali sono i tuoi rapporti con la città?»
« Ottimi: tutti mi conoscono e mi vogliono bene. Ed i servizi sanitari mi soddisfano. Conosco un sacco di gente, dai politici alla curia passando per le associazioni e i sindacati. Devo dire che molti, non solo politici, simpaticamente mi evitano perché mi considerano un rompiscatole. «Non ho tempo» mi dicono «ma io di questo sono contento e non demordo; non c'è stigma che tenga.»

«Com'è la tua vita oggi?» « Non mi lamento; ho i miei alti e bassi ma ci convivo e so affrontarli. Preparare incontri e riunioni mi riempie la giornata e mi fa andare avanti e mi ricorda che esisto. Non saprei immaginare una vita diversa.»

«Quali sono i tuoi progetti futuri? Cosa sta allestendo la tua fervida mente?» Qui l'eloquio diventa serrato e infrenabile; ricorda le cooperative e le associazioni che ha contribuito a far nascere e tutte le persone alle quali si è rivolto, tratteggia lucidamente come fare e a chi appoggiarsi per creare lavoro ai disabili e ai disagiati, come aiutare i poveretti, come creare ambulatori medici per i migranti e per chi non ha assistenza. Ha tante idee che a realizzarle nascerebbe un vero e proprio welfare di comunità.

E non gli chiedere le priorità. Non ne vuol sapere. «Tutto devo riuscire a fare: è il mio impegno per la vita che mi resta.
Ora è tirato, un po' rosso in volto, il nostro Claudio, quasi affaticato.

Gli faccio l'ultima domanda: « Quali personaggi sono il tuo riferimento ideale, se ne hai?» «Certo che ne ho» risponde « San Francesco d'Assisi, Sant'Antonio da Padova, Pier Giorgio Frassati, Madre Teresa di Calcutta, Che Guevara, Martin Luther King, Nelson Mandela, Monsignor Oscar Romero.» Non replico al suo elenco; ce ne potrebbe essere uno migliore?

«Grazie» dice alla fine « grazie dottore» e beve il suo caffè con ghiaccio.
Poi se ne va come era venuto; con la stessa andatura e lo stesso passo. «Vado a riposare un po'» dice sottovoce, salutando tutti.

Io non posso che ammirarlo e ringraziarlo per la sua testimonianza di vita quell'uomo che è già in fondo alla via; un uomo che non è precipitato nel vortice di una malattia che ti nega gli affetti, le amicizie e la società. Lui ha saputo reagire con dignità e coraggio.

Che sia un esempio per tutti e soprattutto per chi avanza nella vita in pieno benessere e senza gli ostacoli e le sofferenze che Claudio ha incontrato e incontra tutti i giorni.

 

17/09/2015





        
  



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