Riposo per il Giro d'Italia
| Ma Renato Novelli...punge e pronostica
Ieri giornata di riflessione su un tema che attraversa la carovana: la rivalità dualistica nel ciclismo. Ho sostenuto in queste brevi note che la rappresentatività simbolica del ciclismo è superiore a quella di altri sport. Il campione ciclista è sempre e inevitabilmente personaggio, anche quando scende dalla sella. Per Basso è iniziata una campagna favorevole condotta in primo luogo dal Corriere della Sera. Dalle parti di Via Solforino si sostiene che Basso è un italiano atipico, serio, taciturno, mai sbruffone, non lamentoso, non auto compiaciuto. Insomma un anti - italiano che non accusa mai altri delle proprie debolezze e non sgomita per arrivare. Niente da dire.
Ma il passo successivo arriva tagliente ad una supposta rivalità con Cunego. Lui (Basso) è sposato, diceva qualche giorno fa il giornalista corseriano, Cunego convive ed ha pure una figlia, Forse non voluta. Ecco un esempio di forzatura giornalistica. Io non conosco le vicissitudini sessuali di Cunego, né mi interessa conoscerle. Né tanto meno quelle di Basso.
Ma perché in Italia, il ciclismo deve sempre essere fondato su due rivali ? Direi che la rivalità costituisce una specie di ontologia del ciclismo italiano. Una condizione senza la quale il ciclismo può esistere, ma non essere. Siamo più o meno gli unici al mondo. Nei Primi anni, le due ruote non trasportarono due nemici, ma molti avversari amici che in corsa se le davano di santa ragione e poi bevevano insieme un bicchiere e si sentivano parte di un solo circo. Ganna e Galletti vinsero i primi giri dal 1909 al 1912, senza essere avversari.
Il dualismo inizia dopo la Prima Guerra Mondiale con Girardengo (vincitore del Giro nel 1919 – 1923) e Brunero (Giro del 1921 -1922 – 1926). Girardengo vinse un giro in meno, ma nel complesso fu più forte. Poi fu la volta di Binda (giro 1925 – 1927 – 1928 – 1929 – 1933, nell’intervallo gli fu impedita la partenza per manifesta superiorità che annoiava gli sportivi) Guerra ( Giro 1934). Binda era freddo , calcolatore, dosava le forze giorno per giorno e giorno per giorno accumulava minuti di vantaggio. Guerra, detto la locomotiva umana, era generoso, poco calcolatore. Vinse meno, ma entusiasmò i tifosi. Nel secondo dopoguerra l’ontologia della rivalità toccò l’apoteosi con Bartali e Coppi.
Poi Gimondi - Motta, Saronni – Moser. Sembra che il ciclismo non possa sviluppare la propria essenza simbolica, se non richiamando il dualismo universale della sfida. Siamo di fronte ad una filosofia. Conrad ne diede una versione letteraria ne “I duellanti”, De Unanumo ne ha fatto un romanzo filosofico sull’odio. Per quanto possa sembrare paradossale, credo che la rivalità dualistica nel ciclismo sia stata e continui ad essere un’invenzione retorica degli intellettuali che hanno amato lo sport del velocipede.
Il ciclismo vero, da tempo è formato da una fenomenologia trascendentale molto diversa che ha la sua versione più pura al Tour: un campione prevalente, gettonato e coccolato contro una serie di sfidanti che cercano di batterlo. Intorno a questo schema, di quando in quando, il popolo della bici si emoziona per un qualche corsaro che spunti all’improvviso dal ventre profondo del professionismo e del gruppo per sfidare le previsioni. In Italia, seppure per un breve periodo, Pantani ha interpretato questo modello. Campione unico.
Figura tragica della vita che morendo ha lasciato sul tavolo della stanza d’albergo, una poesia dedicata alla sua bicicletta scritta sulle pagine del suo passaporto. Solo Cesare Pavese aveva saputo dare un addio altrettanto struggente e distruttivo alla vita con quel biglietto rivolto agli amici “Non fate pettegolezzi”. Pavese aveva scelto di morire, Pantani forse è stato ghermito dalla morte. E per non chiudere con un amaro finale, dirò che la crono di domani farà vittime illustri. Forse Basso può chiudere il Giro o forse no. Non dimentichiamo Anquetil che stravincendo la cronometro perse due Giri, ma neppure Merckx, che stravincedo le cronometro ne vinse quattro.
Altri tempi.
Ma il passo successivo arriva tagliente ad una supposta rivalità con Cunego. Lui (Basso) è sposato, diceva qualche giorno fa il giornalista corseriano, Cunego convive ed ha pure una figlia, Forse non voluta. Ecco un esempio di forzatura giornalistica. Io non conosco le vicissitudini sessuali di Cunego, né mi interessa conoscerle. Né tanto meno quelle di Basso.
Ma perché in Italia, il ciclismo deve sempre essere fondato su due rivali ? Direi che la rivalità costituisce una specie di ontologia del ciclismo italiano. Una condizione senza la quale il ciclismo può esistere, ma non essere. Siamo più o meno gli unici al mondo. Nei Primi anni, le due ruote non trasportarono due nemici, ma molti avversari amici che in corsa se le davano di santa ragione e poi bevevano insieme un bicchiere e si sentivano parte di un solo circo. Ganna e Galletti vinsero i primi giri dal 1909 al 1912, senza essere avversari.
Il dualismo inizia dopo la Prima Guerra Mondiale con Girardengo (vincitore del Giro nel 1919 – 1923) e Brunero (Giro del 1921 -1922 – 1926). Girardengo vinse un giro in meno, ma nel complesso fu più forte. Poi fu la volta di Binda (giro 1925 – 1927 – 1928 – 1929 – 1933, nell’intervallo gli fu impedita la partenza per manifesta superiorità che annoiava gli sportivi) Guerra ( Giro 1934). Binda era freddo , calcolatore, dosava le forze giorno per giorno e giorno per giorno accumulava minuti di vantaggio. Guerra, detto la locomotiva umana, era generoso, poco calcolatore. Vinse meno, ma entusiasmò i tifosi. Nel secondo dopoguerra l’ontologia della rivalità toccò l’apoteosi con Bartali e Coppi.
Poi Gimondi - Motta, Saronni – Moser. Sembra che il ciclismo non possa sviluppare la propria essenza simbolica, se non richiamando il dualismo universale della sfida. Siamo di fronte ad una filosofia. Conrad ne diede una versione letteraria ne “I duellanti”, De Unanumo ne ha fatto un romanzo filosofico sull’odio. Per quanto possa sembrare paradossale, credo che la rivalità dualistica nel ciclismo sia stata e continui ad essere un’invenzione retorica degli intellettuali che hanno amato lo sport del velocipede.
Il ciclismo vero, da tempo è formato da una fenomenologia trascendentale molto diversa che ha la sua versione più pura al Tour: un campione prevalente, gettonato e coccolato contro una serie di sfidanti che cercano di batterlo. Intorno a questo schema, di quando in quando, il popolo della bici si emoziona per un qualche corsaro che spunti all’improvviso dal ventre profondo del professionismo e del gruppo per sfidare le previsioni. In Italia, seppure per un breve periodo, Pantani ha interpretato questo modello. Campione unico.
Figura tragica della vita che morendo ha lasciato sul tavolo della stanza d’albergo, una poesia dedicata alla sua bicicletta scritta sulle pagine del suo passaporto. Solo Cesare Pavese aveva saputo dare un addio altrettanto struggente e distruttivo alla vita con quel biglietto rivolto agli amici “Non fate pettegolezzi”. Pavese aveva scelto di morire, Pantani forse è stato ghermito dalla morte. E per non chiudere con un amaro finale, dirò che la crono di domani farà vittime illustri. Forse Basso può chiudere il Giro o forse no. Non dimentichiamo Anquetil che stravincendo la cronometro perse due Giri, ma neppure Merckx, che stravincedo le cronometro ne vinse quattro.
Altri tempi.
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18/05/2006
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